La ricerca di nuovi indirizzi per orientare la comunicazione, in questo tempo tardo-pandemico, passa sempre di più da questa domanda.
Come esprimo l’attenzione dell’azienda – nei suoi prodotti e attraverso i collaboratori – nei confronti delle comunità dove opera, l’ambiente circostante e globale, l’equilibrio occupazionale e lavorativo: sono questi i primi punti da affrontare quando si incontra un imprenditore che vuole sviluppare un progetto di comunicazione innovativo e coerente con le sue strategie di sviluppo.

Aumentano le richieste del mercato: i clienti si aspettano un impegno del brand a favore dell’ecosistema naturale e sociale in cui si muove. Aumenta la complessità nel gestire i fornitori: chi garantisce lo sviluppo di una filiera fair trade? Aumenta la sensibilità delle risorse umane rispetto all’impatto sociale dell’azienda: i giovani scelgono sempre di più dove andare a lavorare in funzione di parole chiare su ambiente, diritti, cura delle relazioni.

All’origine di questa svolta culturale c’è il rapporto Our Common Future (o Rapporto Brundtland), pubblicato dalla Commissione per l’ambiente e lo sviluppo delle Nazioni Unite nel 1987, nel quale leggiamo “lo sviluppo sostenibile è quello sviluppo che permette di soddisfare i bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri”.
Sono passati 34 anni e da quel documento sono nate anche le sei parole-chiave che ritroviamo in modo più o meno stabile in tutti i progetti di comunicazione degli ultimi mesi, arriveremmo ad individuare 6 coppie (cfr. Strategy Innovation 2020):

Market vs Social NeedIn realtà l’Agenda 2030, approvata dalle Nazioni Unite nel 2015, ha rilanciato gli obiettivi dello sviluppo sostenibile, offrendone una visione più articolata rispetto a quella delineata nell’originario rapporto Brundtland.
Sono stati inoltre definiti una serie di target e traguardi allo scopo di concretizzare le azioni necessarie per raggiungere i 17 obiettivi che racchiudono le molteplici sfaccettature della
sostenibilità.
Leggendoli ritroviamo un perimetro di azioni molto ampio: dalla lotta alla povertà alla tutela degli ecosistemi, dal contrasto al cambiamento climatico allo sviluppo tecnologico atto a favorire la trasformazione industriale.
Come si raggiungono questi obiettivi? Qual è il ruolo del brand nel far vivere questo cambiamento organizzativo e culturale dentro le aziende?

Le 6 coppie compongono quello che oggi appare come un cubo di Rubnik ancora tutto da risolvere: il recupero energetico deve comporsi con le esigenze di trasporto della merce e rigenerazione delle aree produttive, il regalo di beneficienza a fine anno per fare green washing deve fare i conti con un rapporto sempre più diretto e non mediato con i clienti che – anche attraverso i social – possono osannare o distruggere la responsabilità sociale di un’azienda. Il dono (vedi le iniziative benefiche a favore degli ospedali durante il lockdown o l’elargizione liberale ai fan di un brand decisa tramite Twitch) viene passato sotto la lente di ingrandimento e rischia di portare fuori strada, così come il welfare aziendale deve sapersi tradurre in una vera e propria azione per il benessere del dipendente.
Alla fine ci si ritrova a cliccare sulla voce CSR sul sito aziendale misurandosi con un elenco scontato e superficiale di azioni che non toccano né il cuore del cliente né il territorio in cui l’azienda opera.

La strada per la sostenibilità richiede investimenti e controlli frequenti: c’è chi rischia di sbandare e chi procede troppo lentamente. La direzione (il purpose) è questa, non basta fare il primo passo.